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Biografia

Ha una natura articolata e polivalente, ugualmente legata al vecchio e al nuovo mondo, al passato più atavico e al presente più aggiornato, l’arte del pugliese di nascita e americano d’adozione, Arnaldo Miccoli. Allievo di Franco Gentilini, presso l’Accademia delle Belle Arti di Roma, ha come esempio il Maestro nelle scelte che sono rimaste sostanzialmente invariate nel corso di tutta la sua attività: figurazione si, ma in una chiave lontana dalla banalità del virtuosismo realistico fine a se stesso, dalle involuzioni barocche e fanaticamente egocentriche di De Chirico o ancora degli espressionismi “alla Guttuso” e alla “Carlo Levi”, figurazione non come reazione automatica e isterica agli estremismi fondamentalisti dell’Astrattismo, non come difesa di una sopravvivenza archeologica ormai finita ai margini del mondo moderno, ma come coscienza di un linguaggio formale ancora pienamente in grado di istituire un dialogo con l’uomo del Novecento evoluto. Figurazione nel solco di una tradizione italiana rinnovata e vivificata, dimentica di accademismi troppo rivolti alla contemplazione del Rinascimento, dimentica di Valori Plastici e di Novecento, dimentica di prospettive rigorose e di nitori plastici impeccabili, ma fedele al senso essenziale, istintivo, simmetrico e “voluminoso” della forma che era stata di Morandi, di Carrà, di Campigli, di Sironi. Figurazione che equilibra ragione e sentimento, vis espressiva e rigore geometrico, gioco e ricerca, come aveva insegnato la pittura di Paul Klee, reinventando un universo che riacquista il sapore acre del primitivo, senza rinnegare il fondo di intellettualismo moderno a cui si affida l’invenzione delle sue apparenze. Figurazione, infine, che si offre come “distillato” lirico del reale, rielaborazione individuale della natura in una natura “altra”, sfociando inevitabilmente nei terreni dell’immaginazione fantastica anche quando affronta canali diversi da quelli della Metafisica o del Surrealismo, proponendo attraverso la riflessione sulla forma liberamente inventata, una riflessione più generale sul senso ultimo delle cose.

All’origine, abbiamo detto, Miccoli era come Gentilini, ma non soltanto; in Miccoli diversamente dall’aristocratico” e cerebrale Gentilini, la componente primitivista sembra nutrirsi di una più intensa vena vernacolare, come se appartenesse non al forbito recupero culturale di un’anima borghese in cerca di emozioni perdute, ma a qualcosa di più visceralmente attinente al vissuto personale, alla gente, ai luoghi, alle tradizioni di cui l’artista è stato parte.

Se per altri la “scoperta” del Primitivismo è stata un percorso affannoso e forzato alla ricerca di lidi incontaminati, più immaginati e reinventati che realmente individuati (si pensi all’Etruria antica di Campigli, per esempio, lontanissima da qualsiasi parvenza di oggettività), per Miccoli si ha l’impressione che l’analoga operazione abbia comportato sforzi molto meno impegnativi; gli è bastato guardarsi intorno, gli è bastato odorare la terra fragrante e l’aria satura del suo Salento, registrare le facce e i costumi di chi in esso abita da tempo immemorabile, gli è bastato guardarsi dentro per verificare come queste presenze ataviche determinassero in modo ineludibile il suo immaginario, e l’indole primitivista è sorta spontanea.

E’ stato semmai più difficile trasformare questa matrice espressiva in qualcosa di comunicativamente meno legato alla sfera particolare dell’autore, dunque in un linguaggio universale capace di rivolgersi, così come la pittura di Miccoli dichiara, anche a chi nel Salento non sa e magari non vuole nemmeno sapere niente. E’ qui che il discorso artistico di Miccoli compie la sua evoluzione probabilmente più significativa e pregnante, con un processo che perviene al conseguimento di una cifra del tutto originale pur arricchendosi di motivi formali, anche assai eterogenei fra loro. E’ anche quasi sorprendente osservare come Miccoli riesca ad equilibrare, senza eccessive acrobazie, le diverse inclinazioni stilistiche che di volta in volta ha attraversato e confrontato con il proprio Primitivismo originario, quello che alla discendenza salentina, facendo leva su un elevato senso della creazione “equilibrata”, che ancora una volta non può non rimandare a Gentilini.

Si noti, per esempio, come l’innato spirito mediterraneo delle figure di Miccoli, in maggioranza ampie e statiche matrone arcaiche, pre-classiche (come la Donna di Elche, come il Guerriero di Capestrano) venga spesso calibrato da un’improvvisa disposizione per il grottesco, da un demoniaco desiderio di deformazione fisica che rimanda storicamente alla tradizione nordica e, nello specifico del Novecento, alla Germania di Die Brucke e della Neue Sachlickeit.

Ci ritroviamo così a che fare con volti che innestano in una serenità certamente olimpica, guizzi di elettrica perfidia che riportano alla mente Kirchner, Beckmann, Dix, Grosz; e la cosa non ci risulta affatto impropria o contraddittoria, soprattutto se si pensa che simili bagliori, simili scarti, espressivi da maniera a maniera, si possono in fondo intravvedere anche in alcune delle creature fantastiche con le quali gli straordinari scalpellini, al servizio del vescovo Pappagoda, hanno contribuito a fare grande il Barocco leccese. Allo stesso modo le atmosfere d’infanzia del mondo che le immagini di Miccoli riescono a rievocare, sono capaci anche di calarsi nell’attualità più aggiornata, quella made in U.S.A. che l’artista pugliese conosce così bene per averla sperimentata direttamente, già a partire dagli anni sessanta, quella della civiltà di massa e dei nuovi miti metropolitani. Le matrone mediterranee, arcaiche e statiche, cambiano nuovamente veste e diventano parenti strette delle modernissime virago di Allen Jones, simboli pop di una sessualità dirompente che minaccia la centralità del potere maschile e alterna disinvoltamente il sadismo al masochismo. E’ questa la luce giusta che permette di inquadrare il Primitivismo di Miccoli in termini che esulano dal semplice aspetto stilistico, configurandolo come una vera e propria visione del mondo. Esiste nell’uomo, cioè, una costante “brutalità” che supera il tempo e non conosce fratture fra passato e presente, un inesauribile “richiamo della foresta” che non solo la società più evoluta e moderna è riuscita ad assopire, ma che talvolta essa stessa finisce per esaltare. Chi guarda l’aspetto tragicamente fisso e inquietante del Giocatore di hockey, tipico nuovo eroe delle masse statunitensi, non può non riconoscere in esso la stessa “bestialità” dei gladiatori effigiati nei mosaici delle terme di Caracalla, antichi eroi delle moltitudini romane; sono passati diciotto secoli da quei tempi, ma niente sembra essere cambiato da allora. E’ l’inconscio, l’irrazionale che continua a trionfare, a determinare la vita interna ed esterna della maggioranza degli uomini. L’anti-classicismo di Miccoli, la sua ostilità ad ogni idealizzazione fisica dell’uomo, é allora lo specchio fantastico di una nozione dell’esistenza che ci identifica tutti come esseri impuri e deformi, vittime dei continui impulsi dell’inconscio, soggetti predisposti geneticamente al brutto e al male.

Siamo tutti angeli ribelli in cerca di un paradiso perduto per sempre, sembra dirci Miccoli attraverso le sue visioni pittoriche, angeli che sono caduti nel fango e non riescono più a liberarsene. Siamo tutti angosciati dalla nostra irrimediabile imperfezione, a noi è negata la bellezza e la saggezza; siamo tutti mostri, siamo tutti figli, avrebbe detto Goya, del sonno della ragione. Ma nonostante questo pessimismo, alla mostruosità proposta da Miccoli finiamo per abituarci come se possedesse una sostanza non necessariamente terrificante ed opprimente. Ci accorgiamo, cioè, che la mostruosità è in fondo l’anima più autentica dell’umanità, il suo principale motivo d’identità in un universo che sembra essere stato predisposto non da una Grande Ragione, immensa e incommensurabile, ma un Grande Inconscio, quello stesso inconscio che imperversa nelle fantasie di Miccoli e di noi tutti, che fa produrre a noi mostri altri mostri a immagine e somiglianza delle nostre paure, dei nostri timori primordiali, delle nostre voglie insane. Un modo, come un altro, per esorcizzare le minacce di una natura leopardianamente matrigna, come facevano gli ignoti pittori primitivi delle grotte di Altamura.

Vittorio Sgarbi

Opera: ThIS-IS our son. Olio su tela . Cm.285 X 185 – 2015 parte della mostra With War on my Mind del 2016 alla “Galleria Sigismondo Castromediano” di Cavallino

nel suo atelier...

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